No: non ho recensito solo spettacoli o album musicali. Questi sono però i soggetti che preferisco e, perciò, ho scelto di renderli protagonisti degli esempi che trovi di seguito.
Nel lontano 1989, una ragazzina strana venne per caso in possesso di un libretto intitolato Le balene restino sedute, che lesse e rilesse avidamente. Cominciò così a scoprire l’estro di Bergonzoni, che seguì e ammirò da quel momento in avanti. Oggi, quella stessa bibliofila, non più ragazzina (ma ancora altrettanto strana), si trova nella scomoda situazione di commentare Urge, l’ennesimo capolavoro di un artista che celebra magistralmente alcune tra le cose che lei ama di più: il tecnicismo oratorio, le acrobazie linguistiche, l’acuta trasgressione alle abitudini mentali.
Cos’è che urge in maniera così impellente? Scrollarsi di dosso un modo pigramente succube di guardare e di vivere il mondo, innanzitutto: è tempo di scuotersi, di darsi una bella passata di filo “interMentale”. A questo può aiutare il dar credito al sogno, nel quale i parenti possono diventare un indaffarato “incaRtatore” di serpenti o una creatura mezza mamma e mezza ùssaro, un “Tarallo” di Troia può rotolare per il capoluogo pugliese senza trasportare nulla, mentre le espressioni di scontento intonate dal cantante “MUGugno” fungono da colonna sonora. Nel sogno può nevicare sulle piramidi il 15 di Agosto, e l’interpretazione numerologica di tutto questo, sulla base di calendari celtici, birmani e sufi, può aprire inaspettate prospettive.
Fuori dal sogno, un’essenziale struttura in ferro può diventare una prigione stretta ma lunghissima, e delle aste con faretti al posto dei microfoni possono essere dei facinorosi manifestanti. L’autore-attore può imprimere i propri arabeschi intellettuali su fogli di lamiera, scrivendo addirittura la sceneggiatura di un film in cui la figlia del dottore partorisce un tanto desiderato ghiro, la Peppina apre un chiosco di caffè con la cioccolata e un saggio cormorano dimostra di aver compreso l’intero disegno fin dall’inizio. Emerge ancora l’urgenza di scavare in ogni direzione, di scardinare le consuete percezioni e di scuotere con forza le impalcature del senso comune in maniera da far crollare i vecchi edifici fatiscenti: dietro di essi si cela un mare infinito e balneabile… a patto, però, di prestare sempre attenzione alle capre che sfrecciano su motoscafi.
Bergonzoni declina il suo personale “j’accuse” contro la superficialità dell’abitudine anche tramite una sorta di rito tribale, cantato e danzato, a completamento di un complesso mosaico di immagini deliranti la cui potente ragion d’essere risiede proprio nella loro assurdità. In questo mosaico non mancano i motti di spirito, ma il credere che essi siano espedienti per scatenare la risata costituirebbe un’imperdonabile banalizzazione; più vicino alla realtà sarebbe dire che lo spettacolo fa incidentalmente ridere, che la comicità è un effetto collaterale: proprio per questo è così divertente. Sarebbe un peccato se il pubblico, affascinato dai funambolismi e dalla spontanea comicità, non avesse colto il significato che va molto oltre rispetto al semplice intrattenimento.
I testi di Alessandro Bergonzoni sono un balsamo per l’intelligenza, ma sono anche una sfida per qualunque cronista: è impossibile rendere giustizia alle mirabolanti sequele infinite di parole, che si celano e si scoprono una nell’altra, si trasformano e si rivelano quali sofisticatissimi stereogrammi verbali. Difficile raccontarne la forza senza trascrivere integralmente e fedelmente il copione; che possiamo fare, allora? Non ci resta che darvi un suggerimento: andate a vedere Urge a teatro, ascoltate e pensate.
Post Scriptum: una nota di merito va ai direttori artistici del piccolo ma grazioso teatro Peroni di San Martino Buon Albergo per aver portato questo spettacolo sulle scene veronesi; nota di demerito per l’audio, di qualità purtroppo non eccezionale.
Abstract
Per l’interessante rassegna Cantautori DOC, organizzata da Eventi, è andato in scena ieri sera lo spettacolo Gaber, Jannacci, Milano, noi di e con Ale & Franz. Il duo comico ha portato al teatro Filarmonico di Verona quello che descrive come un tributo a due pietre miliari della musica e della cultura italiane; una dimostrazione di come il profondo percorso del “Signor G” e del “genio del contropiede” abbia aiutato e guidato la loro riflessione sotto la comune appartenenza alla città di Milano. Progetto ambizioso e coraggioso, questo, la cui realizzazione però non convince fino in fondo.
Omaggiare personaggi di un certo calibro, che hanno toccato livelli artistici pressoché inarrivabili nel loro genere e che hanno lasciato un segno indelebile nella storia culturale di più generazioni è sempre un’operazione delicata. Per quanto sia condotto con le migliori intenzioni e la massima umiltà, il confronto con questi mostri sacri espone inesorabilmente ad enormi rischi.
Questa convinzione, inutile negarlo, ha avuto di certo una parte importante nell’approccio come pubblico a Gaber, Jannacci, Milano, noi andato in scena Martedì 26 Maggio al teatro Filarmonico di Verona. Ciò non toglie che le promesse enunciate dal titolo dello spettacolo, nonché la presentazione dello stesso anticipata dagli autori ed interpreti Ale & Franz, abbiano dato vita ad aspettative molto alte, purtroppo poi soddisfatte in minima parte.
Il titolo consta di quattro elementi, disposti – secondo Ale & Franz – in ordine di importanza; partiamo dai primi due. Nello svolgersi della rappresentazione, la presenza de I due corsari appare essere troppo marginale rispetto agli intenti dichiarati. Il compito di veicolare il tributo a Gaber e Jannacci viene affidato a qualche brano musicale – ora accennato strumentalmente dalla band ed ora cantato dai due attori – inserito talvolta un po’ forzatamente nello sviluppo del testo e a poco d’altro. I soggetti che costituiscono i primi due elementi del titolo e che ci aspettiamo risultino il cuore dello show spiccano in realtà più per la loro mancanza che per la loro presenza. Una presenza in ogni caso solo accennata, scevra da approfondimenti e che sembra lasciarsi sfuggire occasioni di sviluppo del tutto a portata di mano.
Leggermente più circostanziata risulta la terza voce del titolo, Milano, la città che accomuna i quattro artisti coinvolti e che costituisce l’anima dei loro percorsi artistici. Ma, anche in questo caso, il fil rouge emerge soprattutto grazie al titolo ed alle dichiarazioni di partenza, non per la forza e la chiarezza con le quali è affermato in scena.
Chiaro è invece il ruolo del “noi“, di Ale & Franz, sul palcoscenico per tutta la serata assieme ai musicisti guidati da Luigi Schiavone. I due comici propongono alcuni pezzi di repertorio frammisti ad altri, scritti agli inizi della loro carriera, ma non ancora sfruttati; ne risulta un copione tutto sommato godibile, ma – per tutte le ragioni menzionate sopra – che dispiace per il fatto di avere solo una blanda connessione con i compagni di viaggio.
A penalizzare la serata sono intervenute anche una gestione audio non ottimale, che ha reso poco pulito l’ascolto musicale e faticosa la comprensione del recitato, e qualche evidente sbavatura nella performance dei protagonisti, navigatori ormai esperti nel mare della comicità, ma forse ancora un po’ acerbi in quello della musica.
Una quindicina di anni fa – galeotto fu il parrucchiere… – inciampai in un’intervista a Anthony Kiedis per il magazine Flair. Tra un aneddoto “stupefacente” e un’opinione sui mangiatori di hamburger, il leader dei Red Hot Chili Peppers disse che il rock ‘n roll è come fare surf a Malibù. Pausa Caffè della Borrkia Big Band non ha niente a che fare coi Red Hot Chili Peppers (né con Flair), ma ne ha con il rock ‘n roll. E quella definizione mi sembra perfetta per descriverlo.
A dirla tutta, il terzo album in studio dell’ensemble di Stefano “Borrkia” Toncelli non ha niente a che fare nemmeno con la pausa. Al contrario, ti spinge a ballare senza sosta su un’ondata in 9 riprese dove le discese non sono altro che rincorse per risalire sulla cresta. E non hai bisogno di caffè per riuscirci. 9 brani solari e di facile ascolto, ma non per questo privi di spessore.
Il rock ‘n roll di Pausa caffè è estremamente colorato. In momenti come l’iconico incipit di Ti amo ti odio sfoggia un chiaro surf green rockabilly, in Que vida! Bromm… Bromm preferisce i toni brillanti del marrone country. Non mancano sfumature twist, swing e doo-wop, concludendo con le tinte del tramonto nello slow blues della serenata Sulle rive del broto (o botro?). L’atmosfera generale è anni ’50, vintage ma senza alcuna sfocatura.
Le linee melodiche ricordano qua e là brani già sentiti, ma rimangono comunque trascinanti. Molto divertente tra le altre è Non dormo di notte, dove la voce graffiata di Borrkia incontra quella fresca e morbida di un “American boy”: il sempre splendido Danny Bronzini, che di questo brano è anche coautore e chitarrista. Altro ospite di rilievo è Alessandro “Finaz” Finazzo dei Bandabardò, che cura tastiera, seconda chitarra e cori nella traccia 1.
I testi parlano di sentimenti, pensieri ed occasioni comuni: relazioni complicate, la tenerezza della famiglia, il fascino dei motori, serate con gli amici, scene di vita quotidiana. Tematiche leggere, a tratti ridanciane, ma ovunque raccontate con parole scelte e versi ben congegnati. Se fa sorridere lo sguardo animale da spiaggia, mentre il costume cresce come un mappamondo (tr. 8, Mappamondo), emoziona l’immagine delle onde che urlano “Manhattan!” piene di rabbia e soffice sapone (tr. 6, Manhattan).
Esiste una nota stonata in questo album? Magari più dissonante che stonata, però sì: secondo me è la copertina. L’ascolto porta in un sogno americano di altri tempi, dove il rock ‘n roll è elegantemente strillato dagli strumenti a fiato, dove il tempo è scandito da ritmiche e voci briose, dove le gonne svolazzano e le scarpe sono lucide come i sorrisi. Lo stile scelto per la cover del disco non mi dice questo.
Può darsi che il contrasto sia voluto, tuttavia porta un elemento poco coerente in un progetto altrimenti perfetto. Un prodotto ben studiato, realizzato con un suono di sicuro impatto che, senza alcun dubbio, riserva ulteriori sorprese in versione live.
Il Castello di Zevio ha dedicato la serata di Venerdì 29 Luglio a Maurizio Lastrico, giovane comico da un po’ alla ribalta nazionale grazie soprattutto alla sua partecipazione a Zelig Off e Zelig. Per capirci, stiamo parlando del ragazzo della provincia genovese che ha avuto l’idea di proporre in televisione aneddoti di vita quotidiana riportati in endecasillabi, come fossero parte di un poema in stile dantesco: se credete, magari un po’ stupiti, che questa trovata abbia reso benissimo in video, allora dovrete coniare un nuovo superlativo da associare all’esperienza dal vivo.
I testi di Maurizio Lastrico, in sé, non raccontano nulla di particolarmente sorprendente, ma è il “come” lo raccontano a renderli speciali. Lui è come i suoi pezzi: ordinario e straordinario insieme. Negli abituali jeans e camicia bianca, esce solo per comunicare che a causa di un problema tecnico lo spettacolo inizierà con qualche minuto di ritardo, e il pubblico è già conquistato. Torna poi accompagnato alla chitarra da Matteo Monforte, coautore e amico, dando apertura alle danze.
Si presenta parlando un po’ di sé, del suo utilissimo diploma di segretario d’azienda e della sua esperienza a Zelig. Racconta del suo paese d’origine, di come tutta la movida ruotasse attorno a bar e oratorio e di come pittoreschi personaggi qui frequentati abbiano contribuito a forgiare il suo bagaglio culturale; e allora facciamo la conoscenza di Massimo “Ràttaz” Rattazzi, dei suoi proverbi strampalati e dei suoi bizzarri tic. Come non prendere in giro, poi, i compagni di scuola? Più o meno tutti abbiamo avuto un Bottinazzi, collezionista di 3 e 4 ma con stile, o una Maria Miss-tutto-so, secchiona e schiava delle alte aspettative. E più o meno tutti hanno anche avuto una prima fidanzatina. Quella di Maurizio, Manuela, si è poi rivelata essere la prima fidanzatina di tutto il paese… Ma l’esperienza traumatica gli è servita d’ispirazione per esprimere il suo talento musicale: sarebbe stato davvero un peccato se non avesse potuto dedicare a Manuela la profonda hit, addirittura in un internazionalissimo stile anglo-italiano, Baby, eccheccazzo.
E tra un ricordo, una canzone assieme a Matteo, una declamazione di poesie del partenopeo Tino Capuozzo ed uno scambio di battute col pubblico… “pezzo!”: raccoglimento, silenzio, via con le terzine. Magia: la partita disturbata dalla fidanzata, il sonno post-sbornia interrotto dallo geoviano testimone, il “veccio” che si sente in dovere di dire la propria sulle tecniche del fai-da-te, l’insonnia a causa dei vicini, l’interrogazione da parte della serpe edotta e persino la trita barzelletta del fantasma Formaggino si tramutano da comuni storielle in opere d’arte.
Maurizio Lastrico è eccezionale. Senza mai strafare, riesce a riempire la scena con una ricchezza ed una naturalezza insieme che “tradiscono” anni di studio e la stoffa dell’attore; ha una padronanza dello spazio ed una capacità di accattivare il pubblico, col quale interagisce continuamente, alle quali la scatola televisiva non rende giustizia. Sarà il talento, sarà la scuola del Teatro Stabile di Genova, ma lui riesce a fare tutto questo con una freschezza davvero rara: speriamo riesca a mantenerla sempre, nonostante il successo che si merita e che gli auguriamo vivamente per l’oggi e per il domani.
Different ways è l’album che segna l’esordio discografico dei Denial, band romana nata dall’iniziativa di Paolo Giunta (voce), Sandro Sanchini (chitarre) e Max Marraccini (batteria) e qui arricchita dall’intervento di Alessandro Cefalì (basso), Marco Bartoccioni (chitarra) e Massimiliano Diotallevi (sax).
Il disco non include una title track, ma il tema delle “different ways” caratterizza l’intero progetto. Voglio interpretare questa espressione sia quantitativamente che qualitativamente: le strade sono molte e diverse fra loro, ma sono anche alternative a quelle comunemente battute. In questo senso, l’album soddisfa la promessa anticipata nel titolo, aspetto che – a mio avviso – è positivo in parte.
La prima strada alternativa che i Denial imboccano è quella di esprimersi in una lingua, l’inglese, che non è la loro per nascita. Oltre che aprire le porte ad un pubblico ampio, è innegabile che l’inglese offra delle opportunità musicali molto diverse rispetto a quelle dell’italiano. Non credo sia frutto di un calcolo commerciale; è più probabile che sia stato il forte background brit-pop a condurli spontaneamente lì.
Altrettanto spontaneamente, proprio questo meccanismo li tradisce contribuendo a quello che è secondo me l’aspetto meno convincente del disco. Le lead vocals sono al centro della scena, in linea con il codice pop tradizionale. Ciò rende evidente come, specie in alcuni punti, la pronuncia dell’inglese sia piuttosto “italiana”, elemento che rende meno efficace anche un testo apprezzabile.
Cosa più importante, ho l’impressione che la voce principale sia (forse inconsciamente) alla costante ricerca di sonorità in stile Richard Ashcroft o primo Liam Gallagher. Negli istanti in cui se ne distacca, invece, assume un colore più personale che la valorizza, ma sul quale non insiste.
Nello stile delle tracce considerato nel complesso è evidente la moltitudine di strade. L’ispirazione brit-pop è solo una tessera del mosaico. Lost Dreamer scaturisce palesemente da quella, ma in altri brani si distingue una più decisa vena rock: melodica in Strong love, più aggressiva in Free again, anni ’90 in The way we hide, ballata in Ghost of mine. Con Sinking proud la band fa inoltre un tentativo con atmosfere elettroniche, sperimentazione discutibile che però riesce a rendere la suggestione di sprofondare nell’acqua.
L’album è stato registrato e prodotto dagli stessi Denial, con arrangiamenti molto curati che testimoniano buone idee di fondo. Dalla varietà degli input e degli output che Different ways veicola emerge l’idea di una formazione musicale nata da esperienze reali, non studiata da esperti di Marketing su statistiche e grafici. Se da un lato questo può confondere l’affermazione di una specifica identità, dall’altro conferisce genuinità alla proposta.
In conclusione, trovo che questo primo lavoro dei Denial presenti elementi di valore e margini di miglioramento. Il mio augurio per la band è che riesca, fra le differenti strade per ora tratteggiate, a scegliere quella giusta e farla inequivocabilmente propria.